La “suora fantasma del Capo”, dieci anni fa il mistero risolto da un video

FRANK. Palermo, inizio di primavera di dieci anni fa: ogni giorno al calar della sera una folla oceanica si riversa in via Cappuccinelle, al Capo, davanti alla chiesa di Santa Maria della Mercede. A calamitare l’attenzione dei palermitani è una sagoma che appare dal campanile. L’illusione ottica sembra essere palese sin dal primo momento, ma in molti giurano che l’immagine incastonata nella parte più alta dell’edificio sacro “è una suora fantasma”. Per alcuni addirittura “si tratta di Santa Rita”.

In tanti arrivano muniti di macchina fotografica: c’è chi si accontenta della fotocamera dello smartphone,  chi porta con sé perfino il teleobiettivo, chi la telecamera. Fra fede e scienza c’è chi vuole immortalare “l’apparizione”, chi vuol capire oggettivamente di cosa si tratta. Ed è proprio un filmato girato dal videomaker Roberto Villino a fare chiarezza sul caso: a creare la suggestione è un particolare gioco fra luci, muro scrostato, campane e travi.

L’evidenza non fa scemare il mistero. Gioco di luci sì, ma perché tutto ciò avviene proprio sul campanile della chiesa della “Maronna a’ Miccè”, com’è chiamata dalla storica confraternita che ogni anno la celebra, portandone in processione la statua, in quel rito che – per dire quanto sia sentita la ricorrenza – è conosciuto come “Festino del Capo”? E così il “pellegrinaggio” continua.

Una sera, un curioso riesce ad avventurarsi fin sul campanile e da lì si affaccia mentre il piazzale davanti alla chiesa è ancora una volta stracolmo. A un certo punto, accanto a lui spunta pure il prete. Non trovano ovviamente nessun fantasma, anzi l’effige sfuma ulteriormente con la loro presenza. Ma la gente da giù urla: “A viriti? A viriti? Ora a viremu tutta”.

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“Sono un mafioso, voglio cambiare vita”: 50 anni fa esatti “canta” Vitale, il primo pentito della storia

ALE. Fine marzo 1973. Un “picciotto” di Altarello di 32 anni, si presenta in piena notte in questura. Lo accompagnano nell’ufficio di Bruno Contrada, commissario della squadra mobile. Vuole raccontare “qualcosa di importante”. Lo fanno sedere e parlare per tutta la notte. “Sono un uomo d’onore, sto attraversando una crisi religiosa, voglio iniziare una nuova vita”. E racconta di avere commesso degli omicidi, fa i nomi di Totò Riina, Pippo Calò, Vito Ciancimino e altri mafiosi e gregari. In poche parole: si pente. Si capisce che è uno che “sa” e non è un millantatore. Viola il codice d’onore, rompe il muro dell’omertà, svela l’esistenza di una Commissione, descrive per filo e per segno anche il rito di iniziazione di Cosa nostra, rivela nuovi dettagli mai confessati, disegna la mappa e l’organigramma della mafia. Lui è Leonardo Vitale, il primo pentito. Sono passati 50 anni esatti da quel giorno.

Cresciuto in una famiglia mafiosa, Vitale era un criminale vero che quel 30 marzo 1973 decise di cambiare vita. E’ considerato il primo collaboratore di giustizia della storia della criminalità organizzata in Italia. Siamo all’inizio degli anni Settanta quando il pentito non è ancora di moda. Vitale ad esempio racconta nei dettagli i sequestri Traina e Cassina, elenca gli scempi della famiglia Liggio, denuncia Calò ed altri 27 mafiosi come autori del delitto del procuratore Scaglione. Un giorno dopo scatta la retata: cento capi clan finiscono all’Ucciardone. Ma dopo il processo vengono tutti assolti per insufficienza di prove. Pippo Calò ad esempio non si trova e dopo quelle dichiarazioni avvia la sua latitanza. Alla fine gli unici ad essere condannati sono proprio Leonardo Vitale e lo zio, l’uomo che lo aveva introdotto nella famiglia di Porta Nuova e capo del clan dei Danisinni. Il padre dei pentiti di Cosa nostra viene infatti preso per pazzo. In Appello lo dichiarano infatti seminfermo di mente lo rinchiudono in diversi manicomi giudiziari. Una via crucis che passa anche dal carcere dell’Ucciardone.

A causa delle sue dichiarazioni sulla mafia viene sottoposto a numerose perizie psichiatriche e i medici stabiliscono che è affetto da schizofrenia. Pure i parenti prendono le distanze e dicono che è un pazzo. Dal 1977 viene recluso nel manicomio criminale di Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di Messina. Lo chiamano il “Valachi” di Altarello, come il primo mafioso italoamericano (Joe Valachi) che parla pubblicamente della sua stessa organizzazione di fronte alla commissione McClellan (è l’inventore dell’espressione Cosa nostra). Vitale diventa “l’uomo di vetro”, come il titolo di un libro di Salvatore Parlagreco che racconterà anni dopo la sua storia: “Tormentato dai sensi di colpa, minacciato dai potenti boss, assediato dai familiari spaventati, costretto a peregrinare da un manicomio all’altro e sottoposto a crudeli terapie come l’elettroshock – si legge nel libro – Leonardo Vitale potè vivere da pazzo per undici anni, perché il pazzo non ha verità né menzogne e le sue parole non contano niente”.

Altro che pazzo. Chi rilegge quella famosa deposizione del 1973, si accorge che Leonardo Vitale era in realtà lucidissimo. E infatti nel 1984, a distanza di 11 anni, le sue testimonianze vengono confermate autorevolmente da Tommaso Buscetta. E’ un periodo particolare, spuntano i collaboratori di giustizia. Oltre a Buscetta la lista è lunga: Contorno, Sinagra, Calzetta, Coniglio. Sì, qualcosa è cambiato. A quel punto le cosche, che nulla dimenticano, sanno che Vitale non è più considerato un pazzo e decidono di fargli pagare lo sgarbo commesso 11 anni prima. E’ una domenica mattina, sempre del 1984, il 2 dicembre. Vitale – appena dimesso dal manicomio giudiziario – si trova nella chiesa dei Cappuccini con la madre e la sorella. Esce, per tornare a casa. Un’auto affianca la sua, gli arriva un colpo di pistola in testa. Morirà dopo cinque giorni di agonia.

Vitale, il primo pentito di mafia, viene messo a tacere per sempre dai corleonesi che mandano così un segnale a chi ha voltato le spalle a Cosa nostra. Vitale è stato l’esempio del mafioso che “canta”, rischiando la vita senza essere creduto, per poi infatti rimanere isolato e finire ammazzato. Cinquant’anni dopo il suo esempio è diventato storia. Come il pensiero che a Vitale ha dedicato Giovanni Falcone durante il maxiprocesso: “A differenza della Giustizia dello Stato, la mafia percepì l’importanza delle sue rivelazioni e lo punì inesorabilmente per aver violato la legge dell’ omertà. E’ augurabile che, almeno dopo morto, Vitale trovi il credito che meritava e che merita”.

Italia-Malta 30 anni fa a Palermo, la migliore versione di Mancini giocatore in Nazionale

FRANK. Quanti gol ha segnato Roberto Mancini in Nazionale? Quattro, in trentasei presenze. Dove ha segnato le uniche due reti in Italia con la maglia azzurra? A Palermo. Quando e contro chi? Il 24 marzo 1993 contro Malta. Trent’anni dopo di nuovo contro gli “isolani”, Mancini va a caccia di un successo che non può scappare nella marcia, da campioni in carica, verso Euro 2024, dopo la sconfitta di giovedì sera contro l’Inghilterra.

Il controverso rapporto tra Mancio e la maglia azzurra da giocatore ha, dunque, nella Favorita uno dei luoghi cruciali. La città è ancora segnata dalle stragi mafiose del 1992 e la Nazionale “scende” a Palermo proprio per regalare un momento di spensieratezza ai siciliani: in quarantamila rispondono “presente”, anche perché c’è sete di calcio che conta con i rosanero ad annaspare fra Serie C1 e Serie B. In questa cornice e contro un avversario certamente non indimenticabile, Bobby Gol, come lo chiamano i tifosi della Samp, sfodera una delle sue migliori prestazioni, se non la migliore, con la Nazionale.

Prima si procura la punizione e serve l’assist dell’1-0 a Dino Baggio, poi mette un cioccolatino per il 2-0 di Beppe Signori. Nel secondo tempo, il numero 10 cala il poker azzurro con una capocciata. E nel finale con un altro colpo di testa chiude il conto: Italia sei, Malta uno. “Non aveva mai giocato così bene in azzurro, d’altra parte se non sfruttava questa occasione, difficilmente avrebbe avuto un’altra chanche cosi ghiotta”, scriveranno i giornali l’indomani, facendo fioccare gli 8 per il fantasista della Samp.

E invece di occasioni per Bobby Gol non ne arriveranno più o quasi. Con la scorpacciata della Favorita, la selezione allenata da Sacchi incamera due punti (la vittoria vale ancora tanto) importanti nella corsa a Usa ’94, decisa al fotofinish, con il successo a Milano contro il Portogallo che vale il pass per il Mondiale americano. Proprio la sfida contro i lusitani, sarà l’ultima gara ufficiale di Mancio con la casacca azzurra, a 29 anni. La 10 è ormai di Baggio e alle spalle del Divin Codino bussano gli astri nascenti Totti e Del Piero. E così quella serata a Palermo, resterà per Mancini giocatore indimenticabile.

Da ct poi si siederà sulla panchina del Barbera nel novembre 2019: 9-1 all’Armenia e decima vittoria su dieci partite nel girone di qualificazione a Euro 2020, poi disputatosi nel 2021 e vinto proprio dalla squadra dell’allenatore jesino. Un altro sorriso sotto Monte Pellegrino per Mancio.  Ma poi arriverà la mazzata. Perché un altro 24 marzo, quello del 2022, diventa la data più nefasta nella carriera da tecnico del Mancio. Letale sarà l’ex rosa Trajkovski che getterà nel dramma sportivo un intero Paese fuori dai Mondiali per la seconda volta consecutiva dopo la disfatta firmata Ventura.

San Lorenzo 35 anni fa, mimosa sporca di sangue: la mafia, gli spari a una donna, l’8 marzo

ALE. Spari in strada contro una donna, nel cuore di San Lorenzo. E’ questa la notizia d’apertura dei giornali palermitani l’8 marzo 1988, 35 anni fa esatti. Altro che mimose. La città si sveglia con questa notizia. E sono spari che fanno male perché insanguinano il clima di una realtà che fa i conti ogni giorno con i suoi morti.

E’ il periodo in cui Palermo è ancora come Beirut e la mafia non guarda il calendario. Così succede che la sera di lunedì 7 marzo, alla vigilia della festa delle donne, una 36enne che stava guidando la sua Ford Fiesta in via Nuova, rimane vittima di un agguato. Viene affiancata da due persone che sono in sella a una potente moto. Poi il fuoco. Cinque colpi di calibro 22 (un’arma insolita per episodi come questo) uno dei quali raggiunge la donna alla testa.

Arrivano subito i soccorsi. Quindi la corsa disperata all’ospedale Civico. La polizia piomba sul posto in cerca di indizi per risalire agli autori dei colpi. Trova il parabrezza della Fiesta crivellato, si mette all’inseguimento di due motociclisti le cui caratteristiche assomigliano a quelle dei malviventi che hanno sparato, così come erano state descritte dai testimoni. Ma forse è un depistaggio perché i due individuati, risultano estranei al grave episodio. La donna comunque si salverà. Il giorno dopo supera bene l’intervento chirurgico, nonostante sia stata colpita da diversi proiettili al torace e uno, appunto, alla testa.

Non è un (tentato) delitto passionale, né una vendetta trasversale legata a un “normale” regolamento di conti tra piccoli spacciatori. La vittima, si scoprirà subito dopo, tra il 1984 e il 1986 è stata la fidanzata del super killer Pino Greco, conosciuto con il soprannome “Scarpuzzedda”. La polizia riconosce subito quel volto insanguinato e ritiene che il ferimento della donna possa essere una vendetta dettata invece da quella lunga relazione intrecciata dalla vittima con uno dei più temuti latitanti di mafia, accusato di aver preso parte a tutti i grandi delitti di Palermo degli anni Ottanta.

Ormai da diversi mesi gli stessi corleonesi, che di Pino Greco si erano serviti in tante occasioni, hanno infatti deciso di fargli attorno terra bruciata. Anche perché Scarpuzzedda conosce molti segreti e rischia di diventare una inutile zavorra. Vecchi codici, nuovi inquietanti segnali. Nella Palermo che sta per chiudere quei maledetti anni Ottanta il giallo della mimosa, simbolo della festa della donna, si tinge ancora di rosso, il colore del sangue, mentre la primavera sembra ancora lontana all’orizzonte.